Non è certo una novità che nel XXI secolo il Medio Oriente stia conoscendo una profonda ristrutturazione istituzionale e di equilibri politici che riguardano sia attori regionali, Iran e Arabia Saudita per esempio, sia internazionali come Russia e Stati Uniti, oltre che ovviamente i Paesi più colpiti da varie forme di instabilità e conflitto come Iraq e Siria. In questo quadro certamente non particolarmente positivo, uno degli attori che si è mosso maggiormente, anche se non sempre con successo, è indubbiamente la Turchia di Erdogan.
Farsi un’idea precisa del ruolo della Turchia nel quadro decisamente fluido della politica e delle alleanze mediorientali non è per nulla semplice, anche perché il Paese ha conosciuto varie fasi nella sua politica estera e sta vivendo profondi mutamenti interni che ne hanno indubbiamente condizionato le scelte e le posizioni in politica estera. È possibile però leggere alcuni saggi che indubbiamente ci possono aiutare a comprendere meglio obiettivi, strategie e limitazioni di Ankara.
Il primo è il libro di Alberto Gasparetto, La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente. Iran, Iraq, Israele e Siria (Carocci editore 2017) che prende di petto le diverse crisi regionali e le mette a confronto con la politica estera della Turchia impiegando un approccio cognitivo della politica estera. Dopo i primi due capitoli più teorici sull’analisi della politica estera e sul caso studio di quella turca, il libro entra nel vivo delle varie crisi e il relativo ruolo giocato da Ankara. Interessante quello sull’Iraq, poiché l’operazione Iraqi Freedom a guida americana del marzo 2003 iniziò pochi mesi dopo l’elezione di Erdogan, novembre 2002, e rappresentò quindi il primo vero test di politica estera del nuovo capo di governo. Benché la Turchia fosse, e tutt’ora sia, un membro della NATO, dopo varie consultazioni il governo di Erdogan non concedette agli Stati Uniti il permesso di usare il territorio turco per le operazioni in Iraq, mettendo di fatto il primo tassello di una crisi che nel corso degli anni si è andata ampliando. Come sostiene Gasparetto, quella crisi in realtà rappresenta il primo punto di svolta che si ebbe poi in modo più netto negli anni successivi per la rivalutazione da parte di Ankara dei rapporti con i principali vicini regionali. Il timore maggiore, per ciò che concerne l’operazione in Iraq nel 2003, era relativo al crollo del regime di Saddam e a un eventuale rafforzamento della posizione curda. Indubbiamente il timore di perdere un alleato centrale come gli Stati Uniti giocò un ruolo importante, ma la questione curda, e l’annessa apprensione per una possibile crisi umanitaria, come si era avuta una decina di anni prima con l’operazione Provide Comfort, ebbero sicuramente un ruolo determinante nelle scelte turche.
La Turchia poi ha attraversato altri momenti di crisi e ha avuro un rapporto con Israele abbastanza altalenante, passando da dichiarazioni poco amichevoli a rapporti più cordiali. Momenti di svolta possono essere sia la situazione in Libano con Hezbollah sia le varie operazioni di Israele contro i palestinesi. I rapporti con la Turchia subirono un cambiamento tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 fino ad arrivare al punto più basso, ovvero la crisi della Freedom Flotilla della primavera 2010 che viene affrontata dettagliatamente in un capitolo dedicato.
Il capitolo sulla Siria mette in luce la crisi presente tra i due Paesi che si intreccia al periodo della Guerra fredda in cui erano schierati sui due schieramenti opposti e alla questione curda. Malgrado tutto ciò, poco prima delle Primavere arabe e della conseguente guerra civile siriana i due Paesi stavano firmando trattati bilaterali per favorire il commercio e riavvicinarsi politicamente. Con lo scoppio della guerra però la posizione turca iniziò a cambiare, e il rovesciamento totale si ebbe nel 2012, perché si vide nella crisi del regime di Assad la possibilità di giocare un ruolo di primo piano nella regione e allo stesso tempo di scalzare almeno in parte il rivale iraniano (e sulla questione del nucleare il libro dedica il capitolo 6). Ankara abbracciò così una posizione non solo di opposizione al regime di Assad, e quindi di sostegno agli insorti, con tutte le conseguenze legate anche all’estremismo islamico che ben conosciamo, ma si dimostrò possibilista anche verso un intervento militare diretto.
La seconda fonte utile per meglio comprendere il ruolo della politica turca nel quadro del moderno Medio Oriente è il numero 2/2019 di Rivista di Politica che ospita un corposo e interessante dossier composto da sei diversi articoli su “La nuova Turchia di Erdogan” a cura di Federico Donelli. Il primo lavoro a firma di Emanuela Locci è uno sguardo storico su come si è formata l’identità turca e individua una sorta di continuità tra il nazionalismo del padre della Turchia contemporanea, Kemal Ataturk, che sulle rovine del dissolto impero ottomano costruì le idee portanti sull’idea di un popolo etnicamente e linguisticamente omogeneo, ma anche con una forte connotazione laica e quello del Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan che però si discosta non poco dal precedente per via dei suoi molto più vivi richiami religiosi. Proprio sulle varie anime dell’AKP si focalizza il saggio di Valeria Giannotta, la quale ne ricostruisce la genesi e lo sviluppo. Il lavoro di Fabio Vicini si concentra, invece, su tematiche più fattuali e analizza le proteste di Gezi Park nel maggio 2013, individuando in quel momento il punto di svolta, e in un certo senso di rottura, tra la componente laica e quella religiosa della società turca cavalcata poi da Erdogan. Su questo aspetto più religioso si concentra, invece, Chiara Maritato che analizza il ruolo del Direttorato per gli Affari religiosi, ovvero un forte apparato burocratico dello Stato turco fondato nel 1924 e che supervisiona sia in Turchia sia all’estero tutte le attività delle moschee. Avvicinandoci alle tematiche più prettamente di politica estera il saggio scritto da Emel Parlar Dal e Hakan Mehmetcik mette in luce come sia possibile individuare nei 17 anni di governo Erdogan due fasi distinte. La prima marcata da una forte crescita economica permise alla Turchia di acquisire un ruolo di potenza emergente a livello regionale; la seconda, iniziata con gli sconvolgimenti geopolitici legati alle Primavere arabe, è invece segnata da un maggiore coinvolgimento militare del Paese e al contempo da crescenti frizioni con l’Occidente e gli Stati Uniti.
Il saggio che chiude il dossier è di Federico Donelli e si occupa di analizzare le alleanze regionali che vedono la Turchia al fianco del Qatar crearsi un suo spazio di manovra tra l’asse sciita guidato dall’Iran e quello sunnita guidato dall’Arabia Saudita. Questa alleanza si forma in tempi decisamente recenti, poiché l’avvicinamento dei due Paesi inizia con il colpo di stato in Egitto nel 2013 e si consolida con la crisi interna del Consiglio di Cooperazione del Golfo del 2017, quando Turchia e Qatar per evitare l’isolamento tra i due assi in contrapposizione nella regione trovano un terreno comune. Un’analisi certamente interessante e approfondita che mette in luce sia il ruolo e gli interessi di Ankara e Doha nella regione, sia le capacità diplomatiche e di influenza dei due Paesi.
La Turchia, e in generale il Medio Oriente, non sono certamente facili e semplici ambiti di studio, ma i saggi qui ricordati aiutano indubbiamente a chiarire alcuni aspetti di politica interna e regionale essenziali per poter fondare analisi efficaci.