Francesca Mannocchi, Porti ciascuno la sua colpa. Cronache dalle guerre dei nostri tempi, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 232.
Francesca Mannocchi è una reporter freelance che scrive e collabora con varie testate nazionali e internazionali. In particolare si è occupata di alcune zone di conflitto dalla Libia all’Iraq, dalla Siria all’Afghanistan vincendo per i suoi lavori anche diversi premi. È dunque una persona che ha toccato con mano alcune delle situazioni più difficili e pericolose della nostra contemporaneità e questo è l’aspetto che rende il suo ultimo lavoro, Porti ciascuno la sua colpa, così interessante.
Il libro è una sorta di reportage sulla devastazione legata ai conflitti di cui ISIS è stato protagonista, il focus principale è in Iraq e a Mosul in particolare, ma l’autrice riporta anche interessanti scorci, sempre legati alla sua personale esperienza, della situazione a Sirte e in Siria. Grazie alle pagine del volume è possibile penetrare la realtà di situazioni conflittuali molto complesse e articolate che però vengono troppo spesso raccontate in modo superficiale con una spaccatura troppo netta tra un presunto Bene e un presunto Male.
Il libro è costruito intorno alle interviste condotte dalla reporter a militari, miliziani e civili coinvolti nel conflitto e dunque dà voce a diverse prospettive che offrono uno spaccato molto interessante, ma anche estremamente complesso, delle realtà locali. Inoltre, il testo, affrontando le ragioni del conflitto da entrambe le parti, riesce a offrire al lettore uno sguardo sul possibile futuro che non appare per nulla positivo.
Non è un libro che parla di ISIS o del conflitto (per queste tematiche potete sempre leggere il mio su ISIS o per un quadro più generale il mio testo guerra in Iraq), ma è un’opera che mette in luce le contraddizioni di quello scontro, soprattutto di come è stato raccontato, e penetra la realtà della guerra che non prevede buoni o cattivi, bensì semplicemente combattenti. Per esempio Francesca Mannocchi riporta un fatto di cui è stata testimone a Sirte, in Libia, quando la città venne liberata da ISIS. La reporter accompagnava un gruppo di soldati libici in prima linea che estrassero dalle macerie un miliziano di ISIS disarmato, ferito ma vivo. Dopo alcune percosse, i soldati gli spararono prima alle gambe e poi uccidendo il miliziano che in quel frangente avrebbe dovuto essere considerato un prigioniero di guerra arresosi e disarmato. Quelli che sparano e uccidono, sono i liberatori, i salvatori del governo di Tropoli.
La cruda realtà della guerra emerge in altri passaggi del libro: “I miasmi dei corpi in putrefazione entrano così violentemente nel naso che dopo un po’ non danno più alla testa” (69). Mosul devastata non ha solo cumuli di macerie da ripulire, ma anche a distanza di tempo dalla fine dei combattimenti cadaveri da seppellire.
Chi conosce la Guerra sa bene che tracciare linee di demarcazione precise tra i “buoni” e i “cattivi” è impossibile, che i contorni sono sempre sfumati e che le situazioni reali e sul campo sono più articolate e complesse di quanto le narrative dei vincitori vogliano far emergere. Il testo della Mannocchi mette proprio in luce questo aspetto ed è il grande merito del volume. Per esempio, l’autrice fa vedere come nei primi giorni della campagna per liberare Mosul i soldati iracheni si comportassero relativamente bene verso la popolazione anche per ben apparire di fronte alle telecamere, ma “tanto più i soldati avanzavano, tanto più perdevano il pudore dei racconti, la ritrosia dei primi mesi nel rispondere alle domande e nel mostrare i soprusi sui prigionieri” (p. 67). Quello che si è spesso dimenticato in occidente e in un certa narrazione su ISIS e sul conflitto in Iraq è la contrapposizione feroce e violenta che ha contraddistinto gli ultimi 20 anni di quel martoriato Paese e che vede contrapposti i gruppi sciiti a quelli sunniti (che in parte hanno appoggiato lo Stato Islamico). Tale contrapposizione non solo è fortemente radicata nella popolazione, ma è anche uno dei principali motivi dello sviluppo dei gruppi estremisti nell’area. Un sentimento che, è bene ricordarlo, non è svanito. A pagina 78 viene riportata un’intervista a un soldato iracheno sciita che mostra chiaramente tale problematica: “quelli che oggi escono in lacrime dalle macerie, chiedendo di essere salvati, sono gli stessi che hanno invitato e protetto gli assassini di ISIS. Ci chiamavano cani, a noi dell’esercito. Ah si? Siamo cani? E allora perché dovremmo salvarvi? Avete dimostrato di essere nostri fratelli? No”. Queste sono le basi della fragile società irachena.
Tale contrapposizione emerge poi chiaramente anche dalle donne di ISIS che vengono intervistate. Le loro parole non sono certamente di sconfitta o di abbandono di un’ideologia violenta né di pentimento per averla abbracciata e sostenuta. Nel testo ci sono diversi passaggi che sottolineano questo aspetto: “Tu pensi che sia una perdita [quella del marito morto in battaglia tra le file di ISIS]… ma per me è un onore essere stata moglie di un combattente…. Noi abbiamo scelto di essere lì, i nostri mariti non ci hanno costretto” (p. 174); mio marito “aveva un buon carattere, tutti gli volevano bene, era responsabile di una zona [controllata da ISIS] e non ha mai fatto male a nessuno che non lo meritasse…. uccideva gli uomini, ma non toccava le donne e i bambini” (p. 207). La stessa donna intervistata mette poi in luce un altro elemento spesso ingorato dalla narrativa occidentale ovvero i crimini e le responsabilità del governo di Baghdad che porta avanti una politica di segregazione verso i sunniti: “Prima dell’ISIS a Mosul le donne venivano stuprate e uccise dalla polizia, e a nessuno interessava che tutti vivessero nel terrore” (p. 208), il terrore prima del terrore.
Infine nel libro non mancano i riferimenti ai bambini. Mentre a pagina 80-81 si affronta il problema dei bambini soldato nelle file di ISIS, un passaggio successivo mette in luce un altro aspetto del loro “impiego” nei moderni conflitti. È il racconto di un soldato iracheno che descrive quando una donna con un bambino in braccio si è avvicinata a un checkpoint. I militari hanno invitato la donna a consegnare il bambino e a sollevare la coperta che aveva per dimostrare che non indossava una cintura esplosiva, purtroppo però nel momento che si è avvicinata per consegnare il bimbo la deflagrazione ha ucciso lei, il bambino e quattro militari (101).
Il libro merita sicuramente di essere letto, non è una storia del conflitto, ma è uno sguardo senza veli e senza condizionamenti della realtà sul campo e delle diverse visioni e interpretazioni di ciò che è avvenuto e in parte avviene tutt’ora.