Ieri insieme a Giancarlo Capaldo (ex responsabile Direzione Distrettuale Antimafia di Roma ) e a Mario Vignati (tenente colonnello dei Carabinieri) ho tenuto un seminario presso l’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia nella splendida Trieste dal titolo Possibili scenari di attività, insediamento e riconfigurazione statuale del Califfato. L’incontro si inserisce nel quadro di una serie di seminari organizzati dalla Fondazione ICSA di Roma per promuovere l’importante lavoro di ricerca dedicato alle connessioni tra criminalità e terrorismo a cui ho collaborato e che è stato pubblicato qualche mese fa: Terrorismo, criminalità e contrabbando. La preparazione di questo incontro mi ha permesso di analizzare più nel dettaglio lo scenario africano in cui vari gruppi jihadisti si sono radicati sin dai primi anni 2000. Il quadro che ne emerge, e che ho cercato di offrire alla platea, è molto frammentato e complesso e rispecchia la realtà di quelle regioni storicamente difficili da controllare.
I gruppi che operano nell’Africa del Nord e Sahariana sono vari con storie e legami molto diversi fra loro. Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) è la milizia storicamente più radicata che trova le proprie radici, sotto un’altra sigla, durante la guerra civile in Algeria negli anni ’90. Un gruppo fortemente legato ad al Qaeda è indubbiamente al-Shabab in Somalia che ha anche sedato al suo interno un tentativo di affiliarsi a ISIS. Ansar al Din è una milizia collegata ad al Qaeda e opera principalmente in Mali e Niger. Al-Mourabitoun nasce da una costola di AQIM sotto la guida di Mokhtar Belmokhtar e opera in una vasta area tra l’Algeria, la Libia, il Mali, il Niger. Boko Haram opera in Nigeria e ha provato a fare il salto di qualità con un giuramento di fedeltà allo Stato Islamico che però appare più di facciata che altro. Per quanto riguarda i gruppi legati a ISIS, invece, alla fine del 2016, Abu Bakr al-Baghdadi al culmine dell’espansione di ISIS annunciò che il gruppo aveva ampliato il suo raggio d’azione e spostato elementi di comando in Africa. La rivista ufficiale del gruppo, Dabiq, fece un elenco delle regioni che si potevano considerare parte del Califfato: Sudan, Ciad ed Egitto (la provincia di Alkinaana); Eritrea, Etiopia, Somalia, Kenya e Uganda (la provincia di Habasha); Libia, Tunisia, Marocco, Algeria, Nigeria, Niger e Mauritania (la provincia Maghreb). In Tunisia, Ansar al-Sharia svolse un ruolo chiave più che nel compiere attentati nel reclutare foreign fighters per ISIS da impiegare poi soprattutto in Siria. Si ritiene che circa 6500 tunisini abbiano viaggiato verso la Siria e l’Iraq, di più di qualsiasi altro paese. Bisogna anche ricordare la situazione nel Sinai dove nel dicembre 2014 Ansar Beit al-Maqdis (ABM) o Stato del Sinai, giurò fedeltà ad al-Baghdadi diventando quindi il legittimo alleato di ISIS nella regione. Dopo questa dichiarazione, ABM adottò la propaganda e le tipologie di operazioni più simili a Daesh sia contro obiettivi internazionali sia contro le forze di sicurezza egiziane contro cui sviluppò lo sforzo maggiore. Altri gruppi legati a ISIS sono poi l’Islamic State in the Great Sahara che opera tra il Mali e il Niger o l’Islamic State in Somalia, Kenya, Tanzania e Uganda (Jahba East Africa), ma queste ultime sono piccole realtà che malgrado siano operative devono ancora dimostrare di potersi ritagliare uno spazio importante.
L’instabilità che queste milizie creano però si lega profondamente all’instabilità tipica di quelle regioni africane dove i confini internazionali creati dal colonialismo non solo non rappresentato realtà statuali coese e stabili, ma intersecano inoltre vecchie rotte commerciali che rappresentano il cuore del commercio africano sin dai tempi dei vecchi imperi africani. Ciò spiega anche perché spesso è difficile tracciare una linea di demarcazione netta e precisa tra gruppi criminali e queste milizie variamente collegate al jihadismo globale. Nel teatro africano gli elementi si sovrappongono in modo evidente e la stessa milizia si trova, per esempio, non tanto a gestire il traffico di droga quando ad offrire punti di sbarco, reti di trasporto sicuro e la sicurezza a quei carichi.
Indubbiamente la fine del progetto statuale di ISIS in Medio Oriente ha trasformato gli enormi spazi africani in utili punti di coesione per foreign fighters e miliziani, l’instabilità libica a partire dal 2011 ha aumentato ulteriormente le possibilità di espansione di queste milizie e ciò è testimoniato dal fatto che la violenza nella regione ha raggiunto il picco massimo intorno al 2015 per poi attestarsi su livelli circa il doppio di quelli del 2010). Non è inoltre un caso, e questo è forse l’elemento più significativo, che la cosiddetta remote violence, ovvero quelle azioni militari condotte con strumenti che non includono gruppi armati ma IED o attentatori suicidi, è aumentata fino a rappresentare il 9% dell’intera gamma di azioni offensive, mentre solo fino al 2010 non copriva nemmeno l’1%. Per esempio, secondo i dati del database dell’Università di Chicago, uno dei più completi e affidabili archivi per quanto riguarda la tattica dell’attacco suicida, dal 1995 al 2016 si sono registrati 506 azioni suicide nel continente, ma prima del 2007 se ne contavano solo poche unità ogni anno (1 nel 1995 in Algeria, 2 nel 1998, 2 nel 2002, 5 nel 2003, 2 nel 2004, 3 nel 2005 e nel 2006), dopo l’impiego è aumentato enormemente e nel 2015 furono addirittura 176.
L’Africa resta quindi un teatro importante, anche se spesso non preso sufficientemente in considerazione, per ciò che riguarda la minaccia jihadista e un caso di studio ricco di spunti da analizzare anche in un quadro geopolitico più ampio visto che oltre alle operazioni militari francesi bisogna ricordare la presenza americana, la crescente influenza, soprattutto commerciale, cinese e le operazioni di disturbo, ma comunque di una certa rilevanza, della Russia di Putin.
Per approfondire:
Carlo De Stefano, Elettra Santori, Italo Saverio Trento, Terrorismo, criminalità e contrabbando. Gli affari dei jihadisti tra Medio Oriente, Africa ed Europa
The Struggle for Security in Africa
Sub-Saharan Africa’s Three “New” Islamic State Affiliates
Guido Steinberg and Annette Weber (Eds.) Jihadism in Africa