Che il coronavirus sia un’emergenza sanitaria lo sappiamo tutti, che ha e avrà ripercussioni politiche ed economiche ne siamo certi, anche se non sappiamo bene quali e di che portata. Non abbiamo la sfera di cristallo e di certo questa è una situazione nuova per molti aspetti, ma alcuni strumenti per riflettere e farci un’idea li abbiamo. In particolare mi riferisco ai cosiddetti Security Studies ovvero una sotto-disciplina accademica della più ampia categoria delle relazioni internazionali. Questo campo di ricerca si è ampliato enormemente dalla fine della Guerra Fredda e ha sempre più adottato un approccio interdisciplinare con l’obiettivo di educare gli studenti che aspirano a carriere professionali in think tank, consulenze, ONG o in posizioni di servizio del governo incentrate su diplomazia, politica estera, risoluzione dei conflitti e prevenzione, gestione delle emergenze e dei disastri, intelligence e difesa.
Intesi in questo modo i Security Studies hanno una miriade di filoni di ricerca, ma oggi, vista la crisi che stiamo affrontando con l’epidemia di coronavirus, quello che interessa maggiormente è indubbiamente il filone che si occupa dell’impatto della salute sulla politica internazionale. Un settore piuttosto recente che ci può offrire spunti di riflessione sull’attuale crisi, non dal punto di vista medico (per questo genere di studi e analisi rimandiamo agli specialisti del settore), bensì da uno storico-politico.
A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, grazie allo sviluppo della scienza medica e in particolare dello studio su batteri e virus con i conseguenti vaccini per svariate malattie, si era sviluppata una certa visione ottimistica del mondo, soprattutto in Occidente dove le principali malattie virali come vaiolo, poliomielite e simili erano state sostanzialmente debellate, che immaginava una vittoria dell’uomo, e della sua scienza, sui virus. Tale hubris venne ben presto intaccata dallo svilupparsi dell’HIV che però al contempo rappresentò anche un cambio di paradigma all’interno dei discorsi sulla sicurezza e sul modo di pensare la sicurezza. Infatti, nel 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite discusse per la prima volta il problema dell’HIV in termini di sicurezza internazionale e adottò una risoluzione contro l’ADIS. Benché il documento non contenesse nulla di rivoluzionario, rappresentò un momento di rottura, poiché trasformava l’HIV/AIDS in un problema di sicurezza nazionale. Ovvero un’emergenza, indubbiamente grave ma prettamente sanitaria, veniva letta e interpretata come un problema di sicurezza al pari della guerra o del terrorismo. Da quel momento abbiamo avuto altre crisi, di minore entità, ma sempre a carattere sanitario con ripercussioni sulla sicurezza internazionale come per esempio la SARS, la febbre suina e ora il coronavirus che pare avere un impatto maggiore. Nel corso degli ultimi decenni si è dunque assistito a un diverso modo di concepire la sicurezza e la salute e il rapporto reciproco tra le due nel quadro della politica internazionale.
Siccome però non abbiamo molti casi recenti su cui basare le riflessioni dobbiamo affidarci alla Storia e ciò ci permette di contestualizzare meglio la situazione attuale che senza ombra di dubbio non è un unicum. Le epidemie di varia natura e pericolosità sono state a lungo la più grande minaccia per l’umanità, e nonostante il continuo progresso della scienza medica, sembrano destinate a continuare a esserlo anche per il prossimo futuro. La morte nera del XIV secolo ha causato più vittime di qualsiasi conflitto militare prima o dopo, mentre l’epidemia di influenza tra il 1918 e il 1920, la cosiddetta spagnola, uccise molte più persone della Grande Guerra. Inoltre, questo genere di minacce tendono a essere transnazionali e in quanto tale rappresenta una sfida alla sicurezza non facilmente contrastabile dagli uomini suddivisi in unità politiche indipendenti, fatto questo inconfutabile e ineliminabile del sistema internazionale.
Questo aspetto non lo scopriamo oggi. Storicamente le varie pandemie che si sono registrate sono state tutte frutto dell’incontro di due unità umane (civiltà, Stati, popoli, etnie ecc.) prima separate. Nuove malattie entrarono in Europa dall’Asia (dove spesso si sviluppano nuovi focolai) grazie ai mercanti genovesi e veneziani, i colonizzatori europei portarono vaiolo, morbillo e altre malattie che uccisero milioni di persone nelle Americhe. È stato calcolato che tra il 70% e l’86% delle epidemie di morbillo in Europa siano state introdotte da persone infette provenienti dall’Africa e dall’Asia. Dunque è storicamente provato che il movimento di beni e persone produca come conseguenza il rischio della diffusione di malattie, una riflessione che si adatta molto bene non solo al generale dibattito sulla globalizzazione, ma anche a quello sull’immigrazione illegale e incontrollata degli ultimi anni.
Ma quali sono i rischi oggi correlati a tale aspetto della sicurezza?
Per prima cosa il proliferare di guerre e failed states, ovvero stati che non sono in grado di controllare il loro territorio e non offrono servizi sanitari minimi ai propri cittadini, aumentano il rischio non solo che in quei territori si sviluppino malattie incontrollate, ma anche che le persone infette possano spostarsi altrove.
Ovviamente l’enorme flusso di merci e persone (pensiamo a tutta l’industria del turismo) legato alla globalizzazione è un fattore fortemente impattante sul rischio di diffusione, ma un altro fenomeno particolarmente interessante, è relativo ai cambiamenti climatici. Che essi siano di origine antropica o meno qui poco importa, il clima è sempre cambiato nella storia ed è fuor di dubbio che sta nuovamente cambiando, questo significa che malattie e gli eventuali insetti vettori che prima vivevano in zone tropicali si avvicinano ad aree più temperate, come per esempio l’Europa.
C’è poi un altro fattore da tenere in considerazione, la crescente urbanizzazione della popolazione mondiale. A partire dal 2010/2011 circa per la prima volta nella storia, l’umanità ha una percentuale maggiore di popolazione che vive in centri urbani che di popolazione rurale, questo conduce a situazioni sanitarie difficili, all’assembramento di persone in spazi ridotti in cui ovviamente il contagio è più facile e veloce. La campagna non è sinonimo di sicurezza totale (molte infezioni derivano da coltivazioni o allevamenti infettati), ma con contatti umani più diradati il contagio è più difficoltoso e lento oltre al fatto che risulta più semplice isolare singole aree. Inoltre, è stato calcolato che dal 1940 agli inizi del XXI secolo il 60% di circa 300 nuove malattie abbia avuto un’origine animale e abbia fatto il salto di specie verso quella umana, come è accaduto, per quanto si sa, con il coronavirus. Ciò probabilmente a causa delle diverse abitudini alimentari che poi vengono diffuse in città.
Seguendo la riflessione di McInnes possiamo individuare almeno tre conseguenze politiche. Primo, la diffusione di queste malattie potrebbe rappresentare una minaccia diretta per la salute e il benessere delle stesse persone che gli stati sono chiamati a proteggere. E per la prima volta dalla metà del XX secolo ad oggi, questo include le popolazioni degli stati occidentali.
In secondo luogo, una pandemia può causare perturbazioni sociali e minacciare l’effettivo funzionamento di uno stato. La fiducia in esso può essere ridotta se lo stato non fosse in grado di fornire un livello base di protezione contro le malattie (si pensi alle difficoltà italiane, ma non solo, di fornire anche un semplicissimo strumento di difesa come le mascherine anche agli operatori sanitari); disuguaglianze sociali grazie a cui i ricchi possano ottenere l’accesso a migliori farmaci o cure, possono portare a contrasti sociali e disordine pubblico (magari non nel bel mezzo dell’emergenza sanitaria quando tutti sono concentrati sulla lotta contro il virus, ma in un secondo momento quando “si tirano le somme”); se il tasso di mortalità diventa particolarmente alto o se le persone sono impossibilitate ad andare al lavoro, i servizi pubblici possono essere messi a rischio; la violenza e il disordine possono verificarsi se le autorità non riescono a far fronte alla situazione. Quindi la stabilità degli stati può essere messa a rischio e gli stati deboli potrebbero iniziare a fallire. Correlato a questo problema c’è anche il rischio, più da scenario cinematografico ma comunque da prendere in considerazone, che l’epidemia colpisca in modo particolarmente duro l’elite politica e dunque un Paese si trovi senza un governo e senza persone preposte a svolgere le proprie mansioni.
In terzo luogo, un’epidemia su larga scala può anche contribuire al declino economico: forzare l’aumento della spesa pubblica; ridurre la produttività a causa dell’assenteismo dei lavoratori e della perdita di personale qualificato; ridurre gli investimenti (interni ed esterni) a causa della mancanza di fiducia delle imprese. Per lo stato coinvolto, i costi potrebbero essere molto significativi, ma siccome viviamo in un mondo globalizzato gli effetti potrebbero essere appunto globali. Uno stato indebolito aprirebbe lo spazio di manovra per un altro attore internazionale che o non ha subito l’epidemia o l’ha subita prima e ora si trova in una posizione di vantaggio, nel contesto attuale la Cina.
Andrew Price-Smtih in un testo di una decina di anni fa, Contagion and Chaos, esordiva affermando giustamente: “Health is the fulcrum of material power, and therefore it is central to the interests of the modern sovereign state”. Secondo la sua interpretazione, la malattia epidemica presenta una diretta minaccia al potere dello stato, in quanto erode la prosperità, destabilizza le relazioni tra stato e società, rende le istituzioni sclerotiche, fomenta la violenza all’interno dello stato e alla fine diminuisce il potere e coesione dello stato. In questo modo, la malattia infettiva è profondamente dirompente per lo stato colpito e ne mina la sicurezza. Ciò ha alcune conseguenze dirette sul potere statuale. Primo, l’epidemia può compromettere la prosperità, la legittimità, la coesione strutturale e, in alcuni casi, la sicurezza dello stato. Inoltre, la malattia può esacerbare conflitti intra-nazionali preesistenti tra etnie e/o classi con il rischio che lo stato impieghi punizioni e risposte draconiane per cercare di mantenere l’ordine. Secondo, manifestazioni epidemiche e pandemiche possono promuovere discordia economica e politica tra paesi. Che si scateni una guerra generale è improbabile, ma scontri e frizioni a livello economico e politico, invece, sono probabili il che potrebbe destabilizzare consolidati equilibri geopolitici internazionali con conseguenze sul medio-lungo periodo destabilizzanti. È un po’ ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni tra Stati Uniti e Cina, con quest’ultima impegnata in una ampia e profonda campagna propagandistica nel nostro Paese, ma non solo, al fine di guadagnare una posizione più forte rispetto agli USA.
A livello globale poi dobbiamo fare un’ulteriore riflessione. Infatti, c’è un’intrinseca contraddizione politica nella gestione di eventuali, e oggi sappiamo concrete, crisi sanitarie, poiché da un lato la salute è sempre più modellata dalle forze globali (per i rischi relativi alla movimentazione di beni e persone come abbiamo messo in luce prima), mentre la responsabilità di proteggere la salute è ancora completamente incardinata nello stato-nazione.
Per concludere, l’impatto politico ed economico è difficile da valutare ora (mancano riscontri concreti su molti punti), ma possiamo già individuare tendenze e problematiche che dovremo affrontare sperando di esserci preparati al meglio.